22/03/2023
FriuliVenezia Giulia - Pordenone
Osterie, luoghi del passato che ancor oggi evocano ricordi di tempi perduti, di arcaici stili di vita, di
piaceri semplici ma intensi, perciò fondamentali, irripetibili, irrinunciabili.
Luoghi con il fascino di un mistero immaginato nei dialoghi che, anche per merito della luce fioca d’un lampione, di un’esigua lampadina o del baluginare della fiamma sul grande focolare, davano
suggestione di mistero o di complotto carbonaro anche al colorito ma innocuo argomentare della
gente semplice.
Modesta, gustosa, lontana da raffinati sapori e da salse complicate era la cucina delle osterie. Da
secoli, il popolo, in genere sobrio, ma gaio, vivace e socievole, rimase fedele alle sue tradizioni
culinarie che trovano il loro coronamento naturale in quelle riunioni tra pochi amici intorno a un tavolo di
legno grezzo e di sedie impagliate, con la misura da litro o da mezzo litro per celebrare la fine di una
giornata di lavoro e disputare insieme una "partita" a carte, a dama o a morra.
Di regola, il campionario dei piatti era assai limitato e, soprattutto, nessuna osteria si arrischiava di
apportare modifiche notevoli alle ricette che erano sempre le stesse, negli ingredienti e nei metodi di
preparazione e cottura.
Nessun oste si é mai curato del contenuto di colesterolo del suo "muset co’ la brovada", ma si è
sempre preoccupato che i suoi avventori trovassero il suo piatto squisito e altamente stimolante, sia
all’odorato (che era la più efficace forma di réclame in uso), sia al palato durante il pasto. Ed egli era
ben attento che nell’impasto del cotechino vi fosse abbondanza di gelatine piuttosto che di carni, di
modo che l’appiciccaticcio del musetto fosse controbilanciato dall’asprigno della brovada in un
contrasto di sapori che rende questo piatto, di una semplicità disarmante, uno dei capolavori assoluti
della gastronomia friulana.
Allo stesso modo, l’oste stava attento all’ortodossia di tutti gli altri piatti: dallo spezzatino alla pasta e
fagioli, dagli gnocchi col sugo d’anatra alle trippe, dalle frittate con le erbe fino alle raffinatezze del
baccalà preparato nelle varianti accettate e ammesse dalla rigorosa tradizione.
Il menù, composto da pochi piatti, veniva distribuito con un certo criterio nell’arco della settimana,
dando, il piu delle volte, un’attenzione particolare ad alcune pietanze che finivano per caratterizzare un
giorno specifico: martedì bollito, giovedì gnocchi, venerdì baccalà, sabato trippe. Poi altri piatti come lo
spezzatino, la pasta e fagioli, risi e bisi, frittate d’erbe varie, il musetto con la brovada venivano
preparati con una certa casualità, in relazione al gradimento della clientela e alla disponibilità delle
vivande.
Se tra i piatti elencati si dovesse stabilire una gerarchia, questa risentirebbe, per forza di cose,
dall’abilità del cuoco e dalla sua sensibilità più o meno spiccata per ciascuna pietanza. Ma, credo di
non sbagliare di molto, se nomino "sul campo", il baccala e la trippa Re e Regina della gastronomia
delle osterie nostrane.
Ma se questi nominati erano i piatti del mezzogiorno e della sera, le osterie offrivano ai loro avventori
un sacco di altri spuntini freddi da accompagnare all’ombretta o al quartino che venivano consumati in
piedi, al banco, con gli amici: salumi d’ogni tipo, meglio se di casa, uova sode tagliate a metà e
condite, acciughe e tante altre piccole e semplici golosità che avevano il duplice scopo di attenuare gli
effetti del vino bevuto fuori dai pasti ... e di stimolare la sete per ulteriori ombrette.
Quando la serata volgeva al termine e all’approssimarsi dell’ora della chiusura, erano rimasti
nell’osteria solo i pochi fedelissimi, l’oste abbandonava il suo bancone e portava sul tavolo dei
giocatori di carte l’omaggio della grappa su dei bicchierini, piccoli ma panciuti e riempiti fino all’orlo. ll
brindisi collettivo incoraggiava poi l’ordinazione finale delle "ombre" o dell’amaro a cui s’attribuiva il
potere magico di rimettere a posto il disordine gastrointestinale provocato dalle mangiate e dalle
bevute.
La nostra provincia, specialmente nell’arco pedemontano che va da Caneva a Spilimbergo e nelle
nostre vallate ricca di tradizioni alberghiere e ristoratorie che hanno favorito il sorgere e l’affermarsi, in
loco e nel contermine Veneto, di osterie ricche di giusta rinomanza. Di regola, il giovane figlio d’un
oste, pieno di buona volontà, partiva per Treviso o Venezia a cercarsi un lavoro magari solo da
sguattero e poi, quando aveva ben appreso i segreti del mestiere, tentava il grande passo di mettersi
in proprio.
Una volta che si erano affermati, questi chiamavano al loro fianco parenti ed amici i quali, a loro volta,
aprivano o rilevavano altre osterie, caffetterie, ristoranti o locande.
Storie di ordinaria emigrazione, si dirà, che fanno il paio con quelle parallele delle giovani ragazze
friulane che andavano a servizio nelle case patrizie o borghesi per racimolare i soldi della loro dote,
modesta ma sofferta.