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Arte dei Vinattieri

 

 

L'Arte dei Vinattieri era una delle Arti Minori delle corporazioni di arti e mestieri di Firenze.
 
Inizialmente i vinattieri, commercianti e venditori di vino, si associarono ai fornai e agli albergatori, ma già nel 1288 si distaccarono creando una propria corporazione, il cui simbolo era un calice rosso su fondo bianco. La prima sede dell'Arte fu la chiesa di San Martino (protettore) al Vescovo, poi venne spostata nel palazzo Bartolommei in via Lambertesca davanti al chiasso del Buco, dove ancora oggi si può vederne lo stemma scolpito. La corporazione era retta da 4 consoli, i quali restavano in carica 4 mesi e ricevevano un indennizzo in natura per i servigi prestati all'Arte; essi erano coadiuvati nelle loro funzioni da 12 consiglieri ed un notaio. Il primo statuto a noi pervenuto è del 1339 (con successive aggiunte e modifiche) ed è attualmente conservato presso l'Archivio di Stato; esso venne redatto su membrana e rilegato con strisce di cuoio e borchie di ferro, ma la cosa più importante è che fu scritto in volgare in modo da essere compreso bene da tutti gli iscritti. Lo statuto conteneva precise e severe norme per l'esercizio dell'attività:

  • la regolamentazione sugli orari di apertura e chiusura delle osterie;
  • l'obbligo di acquistare un certo quantitativo di botti, orci e bicchieri solo presso dei fornitori “convenzionati” con l'associazione, il cui prezzo e qualità venivano contrattati direttamente dai consoli;
  • il divieto del gioco d'azzardo e dei dadi all'interno delle osterie;
  • il rispetto di una distanza minima da chiese e conventi entro la quale si poteva aprire una nuova osteria;
  • il divieto di vendere certi tipi di pane salato che stimolasse la sete, inducendo il cliente a bere di più.

Il prezzo di vendita del vino toscano veniva fissato dalle autorità ogni 3 mesi e durante il periodo della vendemmia era di norma più basso, in modo da favorire la vendita di tutte le rimanenze e lasciare posto al vino novello.

I banchi per la mescita del vino erano dunque numerosi in città e benché oggi sia difficile stabilire il consumo medio tra i fiorentini dell'epoca, si può certamente supporre che anche i vinai avessero il loro bel da fare; del resto, è rimasta opinione comune che il “vino faccia sangue” e non di rado i medici lo prescrivevano come cura ricostituente agli ammalati. Il vino era venduto in fiaschi dal contenuto di circa due litri, detti toscanelli, dal collo lungo e rivestiti con la caratteristica paglia sulla pancia; nelle case signorili si beveva in bicchieri di cristallo o di vetro pregiato, mentre in quelle delle famiglie più modeste si usavano dei bicchieri dal colore verde o azzurro. Nelle osterie invece si usavano per lo più tazze o boccali di terracotta.

È bene ricordare comunque che il vino dell'epoca era qualcosa di diverso da quello a cui siamo abituati oggi; il Chianti, ad esempio, è prodotto miscelando tre diversi vitigni, il Trebbiano, il Canaiolo ed il Sangiovese, ma questa “ricetta” venne introdotta solo a metà Ottocento dal barone Bettino Ricasoli, per cui non è difficile immaginare che nel Medioevo, lo si “tagliasse”, con qualche altra sostanza e che la pratica dell'invecchiamento fosse abbastanza limitata e riservata ai pochi clienti che facevano richiesta di vino di alto pregio. Il vino nuovo, infatti, costava poco dopo la vendemmia, mentre poteva triplicare di prezzo in estate ed era pratica comune servirlo annacquato, cosa che sicuramente doveva indispettire i bevitori, ma che in fondo risaliva ai tempi degli antichi romani.

Era tradizione nel periodo autunnale trasportare il vino in città dalla zona di produzione attraverso carri trainati da robuste vacche da lavoro che, una volta giunte nel centro storico, provvedevano a rifornire le cantine e le osterie; il vino che veniva venduto e consumato a Firenze nel Medioevo e nel Rinascimento proveniva sia dalle campagne circostanti, come il territorio di Rufina, dove attualmente sono presenti le denominazioni Chianti Rufina e Pomino, oppure dalla Romagna, dalla Cambia e dalla Sicilia, la cui gradazione era piuttosto alta, come la Malvasia che in genere lascia colorato il bicchiere vuoto. Piaceva molto anche il vino caldo speziato, che sicuramente doveva essere un valido aiuto per combattere il freddo in inverno; la mescita era accompagnata da alcune specialità della cucina dell'epoca, come le tomaselle (frittelle dolci), le rocchettine di riso, le carbonate (lunghe salsicce piccanti cotte sulla brace) e i granelli (testicoli di montone fritti). Le taverne e le osterie divennero luoghi di ritrovo popolari ed erano frequentate anche dai militari e dagli stranieri di passaggio a Firenze, ma pare che neppure le personalità di più alto livello, come Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti e Francesco Ferrucci non disdegnassero di intrattenersi con i loro amici a bere e far baldoria!

L'appellativo di Vin Santo dato al vino dolce, impiegato anche durante la celebrazione della messa, viene fatto risalire, secondo Luciano Artusi, al 1439, quando in occasione del concilio indetto dal papa Eugenio IV, venne servito agli illustri ospiti presenti in città, durante un banchetto al quale partecipò anche il dotto cardinale Basilio Bessarione; egli bevve quello che fiorentini chiamavano allora vin pretto e pare che gli piacque così tanto da definirlo Santo.

La corporazione scelse come proprio protettore San Martino vescovo di Tours, festeggiato l'11 novembre; una gioiosa tradizione popolare caratterizzava questo giorno, in cui si dava la "stura al vin novo" e si accendevano dei falò alla sera.

Ancora oggi, ogni anno viene riproposta la rievocazione del trasporto del vino attraverso i carri trainati dai buoi tra la località di Rufina e Firenze.

Fu iscritto all'Arte, pur non esercitandola, Niccolò Machiavelli.


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